La tenerezza dell’esser (quasi) maturo
Piccola premessa: queste righe le avevo in cuore sin dal 18 giugno, giorno della seconda prova – la tremenda matematica – nel liceo scientifico dove sono stato nominato commissario per l’Esame di Stato. Poi però impegni, stanchezza e altro non mi hanno permesso di scrivere questo post, per cui il mio pensiero originale ha avuto la (s)fortuna di rimanere dentro me, di essere filtrato da tanti ragionamenti nonché di vedersi perdere nell’oblio di un’attenzione selettiva sempre più imperante.
Non c’è una campanella agli esami di maturità, così come non c’è scelta per la classe di turno di scegliersi il luogo dove svolgere ora la prima prova, ora la seconda e la terza. A chiamarti sono spesso i professori interni, qualche volta gli esterni, e ti accompagnano nel luogo deputato al supplizio di quelle ore. Corridoio o palestra, aula magna o posti inventati, c’è sempre la corsa per accaparrarsi i posti decisi e pianificati magari prima – in genere quelli dalla metà in poi – o semplicemente casuali quando non imposti dai professori.
E così quelle “migliaia di gambe e di occhiali di corsa sulle scale” si fermano, trovano la loro relativa quiete, ripassano mentalmente i consigli che i loro professori hanno elargito e predispongono la loro postazione: penne nere (più di una, dovesse finire!), merenda (i più audaci portano panini e gavette ripiene di intingoli casalinghi), vocabolario e così via. Tranne i cellulari, che vanno spenti – “spenti seriamente”, ho detto loro in terza prova, “no per finta come avete fatto, tanto che ancora continuate a ricevere messaggi!” – e consegnati in piccole scatole ricavate per l’occasione da materiale vario.
Circa cinquanta studenti sono lì, apparentemente indifesi, quasi sicuramente vittime di amnesia, ma con lo sguardo curioso sì, ma anche impaurito.
Impaurito perché di fronte gli studenti hanno quel banco di prova più infido di tutti che è la commissione. Cioè noi professori. Cioè quel mix tra interni ed esterni, a cui bisogna aggiungere il Presidente, che deciderà le loro sorti e giudicherà la loro preparazione in una strana e barocca liturgia di verbali, firme, penne rosse, tanti timbri, ceralacca e colloqui.
Professori spesso non così entusiasti di fare la cosiddetta maturità, che però stanno lì un po’ perché i soldi fanno sempre comodo, un po’ perché sono stati obbligati o non si sentono così furbi da inviare certificati di malattia dal dubbio valore.
Io, a dirla tutta, adoro fare gli Esami di Stato. Ed è stato amore a prima vista anche nel primo anno, quando il rigorismo formale superava incommensurabilmente l’attenzione ai contenuti e quando lo stress ti portava a timbrarti il braccio, quasi a dichiararti proprietà della scuola!
Adoro fare gli esami nonostante la paura di non sapere le cose, l’ansia del ripasso prima degli orali (sì, cari studenti, vale anche per noi prof l’archetipo della notte prima degli esami), l’ignoto salto nel vuoto dei colleghi che saranno tuoi prossimi per quasi un mese e nonostante la retribuzione sempre inadeguata per il valore del nostro lavoro. Sì, perché non stiamo lì a metter voti a caso, né a sentire aria fritta: siamo lì per dare un giudizio – ammettiamolo – anche su una persona, il candidato che si è chiamati a conoscere appieno in quelle quattro volte che lo si incontra. Quattro volte precise, a meno che lui non voglia presenziare nei colloqui degli amici: le prove scritte (e sono tre giorni) più il suo turno degli orali. Quattro volte.
Agli scritti provo sempre molta tenerezza quando li osservo. Perché vedo il loro sforzo di vestirsi bene, di fare sin da subito una bella figura; allo stesso tempo anche l’ansia di voler recuperare informazioni sul tuo conto, di ricevere un compito inadeguato rispetto alle loro potenzialità o conoscenze. Provo tenerezza quando iniziano a scrivere la loro prova, il loro personalissimo modo di posizionare il foglio per scriverci sopra, le diverse – e incomprensibili – calligrafie, gli sguardi di aiuto, le solite e ricorrenti domande (“posso andare al bagno?”, “ma come si scrive questa parola?”), i tuoi soliti consigli (“avete tempo, scrivete per bene e con calma”, “non lasciate nulla scritto a matita”, etc…). Non è una tenerezza dovuta a chissà quali ricordi di epoche passate. È una tenerezza dell’immediato, relativa a quel candidato rispetto a un altro.
Ma non c’è solo la tenerezza, anche la voglia di rompere quel laicissimo silenzio metafisico con una battuta, con un sorriso, con una risata, per dar loro l’idea che prima di ogni cosa c’è da star sereni, da prendersi con una sanissima ironia, da scherzare e stare col sorriso; solo dopo c’è possibilità che l’ansia diventi tensione, che l’angoscia si allevi, che l’aspettativa diventi attesa dei giorni a venire e che il voto non sarà sulla persona, sulla loro storia, sul loro passato, ma su ciò che fanno da quel momento in poi.
In quattro giorni si ha un tesoro immenso tra le mani. Si ha, infatti, la loro unicità, il loro singolarissimo modo di interpretare le conoscenze che hanno ricevuto e che ora sono chiamati a dare indietro sotto la forma della preparazione. Si ha, per certi versi, la loro vita. E la si deve trattare al meglio, perché è una fiamma che deve ardere non solo in quei giorni, ma da lì in poi non deve spegnersi. Ecco perché credo molto nella pedagogia della prova, quindi nel valore degli esami. Sono una forma di ἀγωγή che deve continuare a caratterizzare questi tempi di profondo superficialismo e deresponsabilizzazione, rafforzando un modello forte di presa di coscienza di uno step da superare non certo nozionistico, ma che richiama profonde capacità di sintesi, di analogia, di approfondimento culturale e di savoir vivre. Il tutto mediato da un linguaggio multimediale – parlo, ad esempio, dell’utilizzo di media come immagini, video, musica, testi, etc… – che i ragazzi hanno voglia di sperimentare durante quell’ora a disposizione, ma che spesso testi e programmi troppo stantii non permettono di sfruttare come si dovrebbe.
Concludo: questo non vuole essere un post di bilanci, soprattutto ora che l’Esame di Stato si è concluso (fin troppo bene per i “miei” studenti!). L’intento di questo post era principalmente quello di condividere quel sentimento che provo durante la maturità, e non solo di quest’anno, alla vista dei ragazzi, del loro impegnarsi e del loro istrionico modo di essere e di mettersi, gioco forza, in mostra. Da questa condivisione ne è uscita pure una riflessione pedagogica, che spero non dispiaccia a chi ha avuto la pazienza di arrivare fino in fondo!
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